1 - Scambio di lettere tra Italo Calvino ed Elsa Morante (Voci: Giorgio Russomanno e Giuliana Zagra)
Lettera di Italo Calvino a Elsa Morante, 25 ottobre 1956
Cara Elsa,
Ho letto il tuo libro con grande piacere e divertimento e continua sorpresa. Mi piace molto la qualità della tua fantasia, così ricca di continue invenzioni e d’immagini, di piacere della natura e degli uomini, questo tuo immergerti in un mondo quasi visionario di pochi sentimenti e personaggi portati all’estremo e d’un paesaggio essenziale e rendere tutto vero, bastevole in se stesso, con questo condurre il gioco dei personaggi in modo che vada avanti da sé, così che comunichi al lettore il piacere che dovevi provare scrivendolo e inventandolo via via sulla pagina (non posso distogliere la mente da quelle pagine bellissime dell’arrivo della sposa, dei suoi dialoghi con Wilhelm Gerace e con Arturo).
Mi pare più bello di Menzogna e sortilegio, che pure m’era piaciuto, per la natura più felice d’immagini (il riccio sotto la camicia!) e personaggi, perché se là (mi pare, giudicandolo ora a distanza di otto anni) si sentiva ancora la ostinazione di “fare il romanzo”, qui c’è l’abbandono a un puro raccontare, su una trama di sentimenti generali, pago di sé!
La descrizione della casa, le giornate di Arturo, tutte cose molto belle e che diventano subito d’esperienza del lettore, un mondo in cui si gira come a casa propria.
Questa concretezza del tuo raccontare, questo far sempre sentire le cose e le persone viventi, fa anche dimenticare quanto è tenue la materia che tu tratti, forse in fondo di una eccezionalità arbitraria. Ma che importa? Tu racconti e trovi sentimenti veri, non cerebrali. Anche la scabrosità del personaggio di Gerace non comunica disagio, forse per il clima d’infatuazione romantica tuo proprio. Ma il segreto di tutto è che tu credi forse questo: tu credi nel genere umano, ne hai ammirazione, senso della bellezza e della eccezionalità umana: un modo raro oggi di guardare il mondo.
Il finale non è una cosa grandissima in sé, di questo Silvestro non ce ne importa abbastanza perché il suo intervento sia risolutivo, ma comunque il racconto doveva finire. Il linguaggio mi pare molto più semplice, meno prezioso che in Menzogna e Sortilegio, con un gran piacere di cose e colori. In qualche punto forse si ragiona, si ideologizza troppo (come quando Arturo espone le sue idee), ma la vastità dell’impianto tiene su tutto. L’eccezionalità del linguaggio in bocca al ragazzo si regge benissimo, perché c’è – ed è uno dei maggiori divertimenti del libro – l’invenzione di tutta la sua cultura improvvisata.
Ma c’è qualche aggettivo in più ogni tanto, troppo colto e non abbastanza ingenuo per il ragazzo, mi pare. (Ecco qualche esempio che ho segnato: insegna di trionfo barbarica, p. 79; sono leggende romantiche!, p. 80; i libri esotici d’una serena Sibilla p. 83.)
Poi mi piace molto quando Arturo fa gli esercizi alla sbarra di fronte a Nunz., uno dei momenti più perfetti del libro.
A me pare un libro che piacerà molto.
W la “Torpediniera delle Antille”!
tuo – Calvino
Lettera di Elsa Morante a Italo Calvino, Roma, 31 ottobre [1956]
Carissimo Calvino,
soltanto ieri sera, tornata da Ischia a Roma, ho letto la tua lettera. Difatti, partendo per Ischia, non avevo detto di respingermi là la posta, forse anche per scaramanzia; e cioè: tanto temevo che, nella tua promessa lettera, tu mi dicessi che il libro ti era dispiaciuto! – e quasi nella speranza di sfuggire a questo rischio, col rimandarlo a dopo. Basta: il libro invece ti è piaciuto! e molte volte ho riletto la tua lettera con sempre nuova gioia. Per me il tuo giudizio è stato un fatto molto importante. Prima di tutto: perché sai la stima che ho di te – secondo: per la nostra amicizia. E terzo, anche: perché nel libro è un ragazzo che parla e io (seppure, scrivendolo, mi ricordavo di essere stata un ragazzo) in realtà, almeno in questa vita, non sono stata che una ragazza; mentre che tu sei stato un ragazzo, e anzi in gran parte (non offenderti se te lo dico, - lo considero il massimo complimento), lo sei ancora secondo me. Perciò il tuo giudizio mi ha dato la riprova che la straordinaria allegria, e sincerità, e certezza di ricordare, che sentivo nello scrivere questo libro, significavano qualcosa.
Riguardo all’appunto che mi fai su alcune parole troppo difficili, dette da Arturo, ti dirò che, scrivendo quelle parole, prevedevo questa obiezione: tanto che avevo quasi in mente di premettere al libro una breve nota, in cui spiegavo perché, invece, io considero che quelle parole e altre vadano bene. Ho rinunciato poi all’idea di questa prefazione perché, nonostante l’esempio del carissimo Stendhal, non amo dare prefazioni ai romanzi. Ma appena ci vedremo (spero che sarà presto) ti spiegherò le mie ragioni a voce.
Il mio solo dispiacere, leggendo la tua lettera, è che non ti importa gran che del personaggio di Silvestro. Forse perché sei molto giovane, ancora non puoi sapere quanto Silvestro, là nella storia di Arturo, sia importante. Ma quando sarai una persona matura, anzi quasi vecchia, come sono io, forse (se ancora stimerai degno un mio personaggio di qualche tuo pensiero) ti accorgerai che, invece, quel Silvestro là ha una importanza più profonda – e multipla – di quella che oggi tu sei disposto a dargli.
Carissimo Calvino, ti ringrazio di tutte le altre cose che mi dici, e specialmente di questa: che nei miei scritti tu senti la simpatia e l’ammirazione per il genere umano. È vero, difatti, che sempre più, invecchiando, io provo questo sentimento di simpatia, e una vera antipatia per qualcuno, credo, alla fine, mi diventerà quasi impossibile. Succede che ogni persona umana – fosse pure un mostro – in assoluto mi sembra bella. Bella nel senso del rispetto; come dire? – userò le solite parole antiche: fatta a immagine e somiglianza di Dio. È curioso, nel tempo stesso, non credere in Dio, come io non ci credo, ma il rispetto verso di loro è ugualmente di questa specie. Quando ero giovane, meno; ma, invecchiando, si diventa così.
Scusami se ti parlo tanto di vecchiezza; ma adesso, che ho finito questa storia di Arturo, mi sento veramente molto più vecchia. Scrivere un romanzo è bello soprattutto per questo: la compagnia che se ne ha e che dura molto. Adesso, ti confesso che la sua compagnia mi manca assai, e la mia impazienza di vederlo uscire è soprattutto perché mi sembrerà di vederlo ritornare attraverso i pensieri degli altri che lo leggono. Soprattutto di alcuni altri: e perciò ho riletto tante volte la tua lettera, e credo che la rileggerò ancora. Essa mi ha rallegrato in questi giorni, in cui, ti confesso, non riesco a dominare l’angoscia per tutto quello che succede nel mondo. Per chi è nato con una guerra, e ha avuto la giovinezza confusa con un’altra guerra, è difficile trovare nuovo coraggio in mezzo a certe notizie, e anche difficile seguitare a sperare.
Basta. Mi auguro di vederti presto qui a Roma e di parlare anche di questi fatti con te. In realtà, non si parla abbastanza delle cose più importanti, con gli amici – da parte mia, soprattutto, per colpa della timidezza, la quale, in fondo, temo, non è altro che un vizio di orgoglio. A ogni modo, ti prego di ricordare, quando vieni a Roma che per me è sempre un grande piacere vederti, anche senza parlare di niente. Intanto buon lavoro, caro Calvino, - e non vedo l’ora che escano le tue favole. Sono curiosa di vedere come sono raccontate quelle interpretate da te. E auguri per il Barone Rampante – e per i racconti futuri.
Abbracci e saluti – da Elsa Morante – e dai gatti.
2 - Uno dei miei primi vanti era stato il mio nome (Voce: Giorgio Russomanno)
Uno dei miei primi vanti era stato il mio nome. Avevo presto imparato […] che Arturo è una stella: la luce più rapida e radiosa della figura di Boote, nel cielo boreale! E che inoltre questo nome fu portato pure da un re dell’antichità, comandante a una schiera di fedeli: i quali erano tutti eroi, come il loro re stesso, e dal loro re trattati alla pari, come fratelli.
Purtroppo, venni poi a sapere che questo celebre Arturo re di Bretagna non era storia certa, soltanto leggenda; e dunque, lo lasciai da parte per altri re più storici [...]. Ma un altro motivo, tuttavia, bastava lo stesso a dare, per me, un valore araldico al nome Arturo: e cioè, che a destinarmi questo nome pur ignorandone, credo, i simboli titolati), era stata, così seppi, mia madre. La quale, in sé stessa, non era altro che una femminella analfabeta; ma più che una sovrana, per me.
Di lei, in realtà, io ho sempre saputo poco, quasi niente: giacché essa è morta, all’età di nemmeno diciotto anni, nel momento stesso che io, suo primogenito, nascevo. E la sola immagine sua ch’io abbia mai conosciuta è stata un suo ritratto su cartolina. Figurina stinta, mediocre, e quasi larvale; ma adorazione fantastica di tutta la mia fanciullezza.
Il povero fotografo ambulante, cui si deve quest’unica sua immagine, l’ha ritratta ai primi mesi della sua gravidanza. Il suo corpo, pure fra le pieghe della veste ampia, lascia già riconoscere ch’è incinta; ed essa tiene le due manine intrecciate davanti, come per nascondersi, in una posa di timidezza e di pudore. È molto seria, e nei suoi occhi neri non si legge soltanto la sottomissione, ch’è solita in quasi tutte le nostre ragazze e sposette di paese; ma un’interrogazione stupefatta e lievemente spaurita.
Come se, fra le comuni illusioni della maternità, essa già sospettasse il suo destino di morte, e d’ignoranza eterna.
3 - Nei miei giorni di solitudine (Voce: Giorgio Russomanno)
Nei miei giorni di solitudine, a volte un qualche inganno dei sensi mi faceva illudere d’un tratto ch’egli fosse tornato!
Ogni giorno, Immacolatella e io assistevamo a quasi tutti gli arrivi del piroscafo da Napoli. I passeggeri che scendevano erano quasi sempre gente conosciuta, per lo più procidani che erano partiti la mattina e tornavano la sera: lo spedizioniere, la moglie del sarto, la mammana, il padrone dell’albergo Savoia. Certi giorni, poi, si vedevano sbarcare, dopo i passeggeri comuni, i prigionieri destinati al penitenziario.
Vestiti in borghese, ma ammanettati, e accompagnati dalle guardie, essi venivano subito caricati sulla camionetta della polizia, che li portava al castello. Durante il loro breve tragitto a piedi, io evitavo di guardarli: non certo per disdegno, ma per rispetto. Intanto, i marinai ritiravano la passerella, il piroscafo ripartiva, verso Ischia: anche stavolta, il biondo che io aspettavo non era arrivato. Ma una volta o l’altra, infine, lui arrivava.
4 - La mia infanzia è come un paese felice (Voce: Giorgio Russomanno)
La mia infanzia è come un paese felice, del quale lui è l’assoluto regnante! Egli era sempre di passaggio, sempre in partenza, ma nei brevi intervalli che trascorreva a Procida, io lo seguivo come un cane. Dovevamo essere una buffa coppia, per chi ci incontrava! Lui che avanzava risoluto, come una vela nel vento, con la sua bionda testa forestiera, le labbra gonfie e gli occhi duri, senza guardare nessuno in faccia. E io che gli tenevo dietro, girando fieramente a destra e a sinistra i miei occhi mori, come a dire: «Procidani, passa mio padre!» […]
Certe volte, mentre camminavo dietro a mio padre, o andavo in barca con lui, cantavo e ricantavo Le donne dell’Havana, Tabarin, La sierra misteriosa, oppure le canzoni napoletane, per esempio quella che dice: Tu sì ’a canaria! tu sì l’ammore!, sperando che mio padre ammirasse in cuor suo la mia voce. Lui, non dava segno nemmeno d’udirla. Era sempre taciturno, sbrigativo, ombroso, e mi concedeva a malapena qualche occhiata. Ma era già un grande privilegio, per me, che la mia compagnia fosse la sola da lui tollerata nell’isola.
5 - Mio padre era provvisto di una certa istruzione (Voce: Giorgio Russomanno)
Mio padre era provvisto di una certa istruzione, per merito della maestrina, la sua madre-ragazza; e possedeva (in gran parte ereditati da lei) dei libri, fra i quali alcuni anche in italiano. […]
Fra i molti insegnamenti, poi, che ricevevo dalle mie letture, spontaneamente io sceglievo i più affascinanti, e cioè quegli insegnamenti che rispondevano meglio al mio sentimento naturale della vita. Con essi, e in più con le prime certezze che m’aveva già ispirato la persona di mio padre, si formò dunque nella mia coscienza, o fantasia, una specie di Codice della Verità Assoluta, le cui leggi più importanti si potrebbero elencare così:
I. L’AUTORITÀ DEL PADRE E SACRA!
II. LA VERA GRANDEZZA VIRILE CONSISTE NEL CORAGGIO DELL’AZIONE, NEL DISPREZZO DEL PERICOLO, E NEL VALORE MOSTRATO IN COMBATTIMENTO.
III. LA PEGGIOR BASSEZZA È IL TRADIMENTO. SE POI SI TRADISCE IL PROPRIO PADRE O IL PROPRIO CAPO, O UN AMICO ECC., SI ARRIVA ALL’INFIMO DELLA VILTÀ!
IV. NESSUN CONCITTADINO VIVENTE DELL’ISOLA DI PROCIDA È DEGNO DI WILHELM GERACE E DI SUO FIGLIO ARTURO. PER UN GERACE DAR CONFIDENZA A UN CONCITTADINO SIGNIFICHEREBBE DEGRADARSI.
V. NESSUN AFFETTO NELLA VITA UGUAGLIA QUELLO DELLA MADRE.
VI. LE PROVE PIÙ EVIDENTI E TUTTE LE ESPERIENZE UMANE DIMOSTREREBBERO CHE DIO NON ESISTE.
6 - Secondo il mio giudizio (Voce: Giorgio Russomanno)
Secondo il mio giudizio, le donne reali non possedevano nessuno splendore e nessuna magnificenza. Erano degli esseri piccoli, non potevano mai crescere quanto un uomo, e passavano la vita rinchiuse dentro camere e stanzette: per questo erano così pallide. Tutte infagottate nei loro grembiuli, gonne e sottane, in cui dovevano tener sempre nascosto, per legge, il loro corpo misterioso, esse mi parevano figure goffe, quasi informi. Erano sempre affaccendate, sfuggenti, si vergognavano di sé stesse, forse perché erano così brutte; e andavano come animali intristiti, diversi in tutto dall’uomo, senza eleganza né spavalderia. […] E così, mi pare di aver detto quasi tutte le idee che avevo allora sulle donne!
Quando nasceva una femmina, a Procida, la famiglia era scontenta. E io pensavo alla sorte delle femmine. Da bambine, esse ancora non apparivano più brutte dei maschi, né molto diverse, ma per loro non c’era la speranza di poter diventare, crescendo, un bello e grande eroe. La loro sola speranza era di diventare le spose d’un eroe: di servirlo, di stemmarsi del suo nome, di essere la sua proprietà indivisa, che tutti rispettano; e di avere un bel figlio da lui, somigliante al padre.
7 - Eravamo d'inverno (Voce: Giorgio Russomanno)
Eravamo d’inverno, e quel giovedì un piovasco freddo annebbiava Procida e il golfo. In giornate simili, così rare da noi, l’isola pare una flotta che ha ripiegato le sue mille vele dipinte e viaggia su correnti senza rumore, verso gli Iperborei. I fumi dei piroscafi di linea che fanno il solito giro quotidiano, e i loro lunghi fischi attraverso l’aria, sembrano segnali di rotte misteriose, fuori dalla tua sorte: passaggi di contrabbandieri, di cacciatori di balene, di pescatori eschimesi: tesori e migrazioni!
Questi segnali ti portano un’allegrezza d’avventuriero, e, a volte, invece, uno sgomento, come fossero luttuosi addii.
Io avevo compiuto da poco quattordici anni; solo pochi giorni prima avevo saputo che da oggi, con l’arrivo del piroscafo delle tre, la mia esistenza cambiava. E, in attesa delle tre, combattuto fra l’impazienza e la ripugnanza, mi aggiravo per il porto. […]
[Mio padre] aveva la solita aria di arrogante distacco: ed essa sedeva compostamente, alquanto discosta da lui, tenendo in grembo la sua preziosa borsa, di cui stringeva la chiusura con tutte e dieci le dita. Le sue mani erano piccole e ruvide, arrossate dai geloni, e notai che alla sinistra portava un anellino d’oro: la fede di mio padre. Mio padre, invece, non portava nessun anello. […]
Nella penombra della carrozza, il suo volto, con quegli occhioni aperti, sembrava ingioiellato. I suoi sopraccigli folti, di forma irregolare, e congiunti sulla fronte, mi ricordavano certi ritratti di bambine e donne barbariche da me visti nei libri.
All’incrocio della via principale, passando davanti a una nicchia, dov’è esposto, dietro una grata, un quadretto di Maria Vergine, essa levò la destra, e, con aria grave e raccolta, si fece il segno della croce, baciandosi per ultimo i polpastrelli delle dita.
A scorgere ciò, subito io guardai mio padre, nella certezza d’incontrare, per lo meno, un suo sorriso di beffa, o di commiserazione; ma egli, abbandonato sul sedile in una posa indolente, non badava a lei.
Quando arrivammo alla piazzetta, si vide sorgere dal mare la grande curva di un arcobaleno, che attraversava la volta dell’aria fin quasi al centro. Nella luce schiarita, fra i mille riflessi del piovasco apparvero le antiche costruzioni della fortezza, prossime, quasi sopra di noi. Al vederle, la sposa ebbe un movimento di fantastica ammirazione, e urtò col gomito mio padre, domandandogli, in tono d’intesa:
— È quella... la casa nostra?
Risi fragorosamente. Mio padre alzò una spalla e le disse: — Ma no! — Poi spiegò, rivolto a me, calcando sulle parole: — LE HO RACCONTATO CHE ABITIAMO IN UN MAGNIFICO CASTELLO,.
8 - La mia casa sorge (Voce: Giorgio Russomanno)
La mia casa sorge, unica costruzione, sull’alto di un monticello ripido, in mezzo a un terreno incolto e sparso di sassolini di lava. La facciata guarda verso il paese, e da questa parte il fianco del monticello è rafforzato da una vecchia muraglia fatta di pezzi di roccia; qua abita la lucertola turchina (che non si può incontrare altrove, in nessun altro luogo del mondo). A destra, una scalinata di sassi e terra scende verso il piano carrozzabile. […]
È di un colore rosa stinto, di forma quadrata, rozza e costruita senza eleganza; e sembrerebbe un grosso casale di campagna se non fosse per il maestoso portone centrale, e le inferriate ricurve, di uno stile barocco, che proteggono tutte le finestre all’esterno. L’unico ornamento della facciata sono due balconcini di ferro, sospesi ai lati del portone, davanti a due finestre cieche. Questi balconcini, e così pure le inferriate, un tempo furono verniciati di bianco, ma adesso sono tutti macchiati e corrosi dalla ruggine.
Su un battente del portone centrale è intagliata una porticina più piccola, ed è questa il nostro passaggio usuale per entrare in casa: i due battenti invece non vengono mai aperti, e le enormi serrature che li inchiavardano dall’interno sono diventate delle macchine inservibili, per la ruggine che le consuma. Attraverso la porticina si entra in un atrio lungo, pavimentato di lavagna e senza finestre, in fondo al quale, secondo lo stile dei palazzi a Procida, si apre un cancello che dà su un giardino interno. Questo cancello è guardato da due statue di terracotta dipinta, ma assai scolorata, raffiguranti due personaggi in cappuccio, che non si capisce se siano frati, o saraceni. E al di là del cancello, il giardino, chiuso fra le mura della casa come una corte, appare un trionfo di verzure selvagge.
Là, sotto il bel carrubo siciliano, è sepolta la mia cagna Immacolatella.
9 - Al primo piano (Voce: Giorgio Russomanno)
Al primo piano, c’era l’antico refettorio dei frati, trasformato dall’Amalfitano in sala di ricevimento. Era uno stanzone enorme, dal soffitto profondo quasi il doppio di quello delle altre stanze, e finestre molto alte da terra, che guardavano verso la marina. Le pareti, a differenza che nelle altre stanze della casa, non erano tappezzate di carta di Francia, ma decorate tutto all’intorno da un affresco, che imitava una loggia a colonne, con tralci di vigna e grappoli. Contro la parete di fondo, c’era una tavola lunga più di sei metri, e dovunque, in giro, erano sparsi divani e poltrone mezzo sfondati, sedie d’ogni foggia, e cuscini stinti. Un angolo era occupato da un gran camino, che noi non accendevamo mai. E dal soffitto pendeva un immenso lampadario di vetri colorati, tutto coperto di polvere: vi restavano solo poche lampadine, annerite, così che la sua luce valeva quella d’un candeliere. Era qui che si davano convegno, fra suoni e canti, le compagnie dei guaglioni, ai tempi dell’Amalfitano. [...]
La sposa avanzava nelle stanze come se visitasse una chiesa: credo che, nella sua esistenza, non avesse mai veduto una dimora imponente come la nostra. Più di tutto il resto, però, la colpì la cucina. A quanto pareva, uno stanzone simile, provvisto di tanti fornelli, e che serviva soltanto a cucinare, per lei era una meraviglia straordinaria. Tuttavia, tenne a farci sapere che una signora, conoscente di sua sorella, aveva pure lei in casa una cucina, dove si andava solo per cucinare e per mangiare: certo, però, non era grande quanto la nostra. A tale discorso, mio padre rise in faccia alla sposa, e, rivòltosi a me, mi spiegò che lei, nella sua casa di ragazza a Napoli, dove abitava con tutta la famiglia, aveva per cucina solo un fornello a treppiede, che d’inverno s’accendeva in camera, sul pavimento, e d’estate in istrada, per terra davanti alla porta. Anche la pasta, la facevano in camera, e la mettevano ad asciugare sui ferri del letto.
La sposa ascoltava simili spiegazioni di mio padre guardandoci coi suoi occhioni, senza dir nulla. — E lei, — egli proseguì nel medesimo tono di derisione e di compatimento, — non sa fare altro che queste tre cose: la pasta, togliere i pidocchi di testa a sua madre, e dire l’Avemaria e il Padrenostro.
— Da oggi, però, — soggiunse, con aria ostentata, — è una gran signora: la signora Gerace, la padrona di tutta Procida. — Poi d’un tratto, quasi a tradimento, mi volse la domanda inaspettata:
— Tu, moro, a proposito, quando le parli, a questa sposa, come la chiamerai? Bisogna mettersi d’accordo.
Io mi tenni in guardia, e rimasi a bocca chiusa, accigliato e fiero. Essa mi guardava timidamente, infine sorrise, e con molto rossore, abbassando gli occhi rispose a mio padre al posto mio:
— Lui non ha conosciuto mai la madre, povero piccerillo. Per me, il sentimento di fargli da madre, io ce l’ho. Ditegli che mi chiami ma’ e io sono contenta.
10 - La valigia della sposa (Voce: Giorgio Russomanno)
La valigia della sposa era piuttosto leggera; ma, per quanto non potesse contenere molta roba, mi metteva in curiosità. Era la prima volta che abitavo nella stessa casa con una donna, e che assistevo da vicino alla sua vita; e non avevo nessuna idea delle costumanze delle donne, del corredo di queste infagottate creature, e se sempre, anche nel chiuso delle mura, anche quando dormono, esse appaiono così informi e misteriose. […]
L’apertura della valigia fu per me una delusione. Apparvero solo alcuni […] straccetti, un paio di zoccoletti comuni, e un abito a fiorami leggero, già usato, e scolorato dal sudore. V’era poi un fazzoletto grande da testa, ma non così bello come quelli, dipinti di rose, che mio padre soleva mettersi come sciarpe; e nient’altro; la valigia era già quasi vuota. Soltanto, rimaneva ancora, sul fondo, uno strato di fogli di giornale e di carta straccia; il quale, come si vide subito, serviva a proteggere alcuni quadretti incorniciati. Erano tutte immagini della Madonna, ed ella le traeva fuori con sommo rispetto, e deponendole via via sul cassettone le baciava prima, una per una.
Ella non credeva a una sola Madonna, ma a molte: la Madonna di Pompei, la Vergine del Rosario, la Madonna del Carmine e non so quali altre; e le riconosceva, dal costume, dal diadema e dalla posa, come fossero tante regine diverse.
Una, ricordo, era chiusa in rigide fasce d’oro, come le sacre mummie dell’Egitto, e, al pari del suo bambino, fasciato anch’esso d’oro, recava in testa un’enorme corona dalle molte punte. Un’altra, tutta ingioiellata, era nera, come un’idolessa africana, e sorreggeva un figlio che pareva una bambolina d’ebano, carico, lui pure, di pietre sfolgoranti. Un’altra invece non aveva corona: era cinta solo di un alone immateriale, e, se si esclude quest’unico segno del suo titolo, somigliava a una bella pastora fiorente; si divertiva a giocare con un agnello, in compagnia del suo bambino tutto nudo; e di sotto il semplice vestito le sporgeva il piedino, candido e grasso.
Un’altra stava seduta, in atteggiamento di dama, su una bella sedia intagliata; e dondolava una culla così sontuosa che nemmeno in casa d’un duca se ne vedrà mai una uguale! Un’altra ancora, simile a una guerriera, indossava una specie d’armatura di metalli preziosi, e brandiva una spada.
11 - Dal tetto della casa (Voce: Giorgio Russomanno)
Dal tetto della casa, si può vedere la figura distesa dell’isola, che somiglia a un delfino; i suoi piccoli golfi, il Penitenziario, e, non molto lontano, sul mare, la forma azzurro-purpurea dell’isola d’Ischia. Ombre argentate d’isole più lontane. E, a notte, il firmamento, dove cammina Boote, con la sua stella Arturo.
Le isole del nostro arcipelago, laggiù, sul mare napoletano, sono tutte belle.
Le loro terre sono per grande parte di origine vulcanica; e, specialmente in vicinanza degli antichi crateri, vi nascono migliaia di fiori spontanei, di cui non rividi mai più i simili sul continente. In primavera, le colline si coprono di ginestre: riconosci il loro odore selvatico e carezzevole, appena ti avvicini ai nostri porti, viaggiando sul mare nel mese di giugno.
Su per le colline verso la campagna, la mia isola ha straducce solitarie chiuse fra muri antichi, oltre i quali si stendono frutteti e vigneti che sembrano giardini imperiali. Ha varie spiagge dalla sabbia chiara e delicata, e altre rive più piccole, coperte di ciottoli e conchiglie, e nascoste fra grandi scogliere. Fra quelle rocce torreggianti, che sovrastano l’acqua, fanno il nido i gabbiani e le tortore selvatiche, di cui, specialmente al mattino presto, s’odono le voci, ora lamentose, ora allegre. Là, nei giorni quieti, il mare è tenero e fresco, e si posa sulla riva come una rugiada. Ah, io non chiederei d’essere un gabbiano, né un delfino; mi accontenterei d’essere uno scorfano, ch’è il pesce più brutto del mare, pur di ritrovarmi laggiù, a scherzare in quell’acqua. […]
I Procidani sono scontrosi, taciturni. Le porte sono tutte chiuse, pochi si affacciano alle finestre, ogni famiglia vive fra le sue quattro mura, senza mescolarsi alle altre famiglie. L’amicizia, da noi, non piace. E l’arrivo d’un forestiero non desta curiosità, ma piuttosto diffidenza. Se esso fa delle domande, gli rispondono di malavoglia; perché la gente, nella mia isola, non ama d’essere spiata nella propria segretezza.
Sono di razza piccola, bruni, con occhi neri allungati, come gli orientali. E si direbbero tutti parenti fra di loro, tanto si rassomigliano. Le donne, secondo l’usanza antica, vivono in clausura come le monache. Molte di loro portano ancora i capelli lunghi attorcigliati, lo scialle sulla testa, le vesti lunghe, e, d’inverno, gli zoccoli, sulle grosse calze di cotone nero; mentre che d’estate certune vanno a piedi nudi. Quando passano a piedi nudi, rapide, senza rumore, e schivando gli incontri, si direbbero delle gatte selvatiche o delle faine. Esse non scendono mai alle spiagge; per le donne, è peccato bagnarsi nel mare, e perfino vedere altri che si bagnano, è peccato.
12 - Sul lato di ponente che guarda il mare (Voce: Giorgio Russomanno)
Sul lato di ponente che guarda il mare, la mia casa è in vista del castello; ma a una distanza di parecchie centinaia di metri in linea d’aria, al di là di numerosi piccoli golfi da cui, la notte, si staccano le barche dei pescatori con le lampare accese. La lontananza non lascia distinguere le inferriate delle finestruole, né il via-vai dei secondini intorno alle mura; così che, soprattutto l’inverno, quando l’aria è brumosa e le nubi in cammino gli passano davanti, il penitenziario potrebbe sembrare un maniero abbandonato, come se ne trovano in tante città antiche. Una rovina fantastica, abitata solo dai serpi, dai gufi e dalle rondini.
Dietro la casa, si stende una larga spianata, giù dalla quale il terreno diventa scosceso e impervio. E attraverso una lunga frana si arriva a una spiaggetta in forma di triangolo, dalla sabbia nera. Non esiste nessun sentiero che porti a quella spiaggia; ma, a piedi nudi, è facile scendere a precipizio fra i sassi. Laggiù era attraccata una sola barca: era la mia, si chiamava Torpediniera delle Antille.
13 - Qui a Procida (Voce: Giorgio Russomanno)
Qui a Procida, soggiunsi, da quando ero nato, io facevo la vera vita del marinaio. E un marinaio, secondo una sentenza da me letta in un libro d’avventure, deve possedere l’agilità della scimmia, l’occhio dell’aquila e il cuore del leone! […]
E una delle imprese che farò, sarà questa. Prossimamente, come t’ho detto, mio padre e io ce ne andremo assieme lontano, per molto tempo, finché un giorno ci vedono sbarcare qua a Procida, a capo d’una superba flotta. Tutta la gente ci acclama, e i Procidani, col nostro esempio, si fanno i più bravi eroi di tutte le nazioni, come i Macedoni; e anche molto alteri, e signorili, come fossero fratelli a mio padre. Saranno nostri fedeli, e ci seguiranno nelle nostre azioni. Per prima cosa, andiamo all’assalto del Penitenziario, a liberare tutti i carcerati; e in cima alla fortezza issiamo una bandiera con una stella, che si vedrà per tutta quanta la marina intorno!
14 - Mentre attraversavo di corsa le straducole (Voce: Giorgio Russomanno)
Mentre attraversavo di corsa le straducole addormentate, mi pareva d’essere in un teatro tumultuante, in cui molte voci mi gridavano questa parola odiosa: la morte! la morte!
M’arrestai prima al palazzo del dottore, che sorgeva in prossimità della piazzetta, e mi detti a tempestare il portone come un bandito; ma alla fine una voce di donna, da dietro una persiana, mi rispose malamente che il dottore era partito per Napoli. E allora non mi restò che proseguire verso la contrada di Cottimo, a circa tre chilometri di distanza, dove abitava Fortunata, la mammana.
Credo che non impiegai più di dieci minuti per arrivare alla casa di Fortunata (che di solito è un percorso di mezz’ora almeno). Mi detti a picchiare alla porticina coi pugni, coi calci; e la mammana non tardò ad affacciarsi alla finestra, con una mantelluccia buttata sulla camicia da notte: — Corri subito, — le dissi in tono d’imperio, — a casa nostra c’è una donna che sta male... sta male assai! — Eh, guagliò, sei uno solo, e ti credevo una banda, essa borbottò con la sua voce cavernosa, — una donna!... Sarà Nunziata, che si vuole sgravare, e chi altra dovrebb’essere, questa femmina vostra! Va bene, aspettami un minuto, e vengo. — Fa’ presto! — le comandai di nuovo. Indi, mentr’ella si ritirava dalla finestra, le gridai dietro, con accento carico d’odio e di minaccia: — E adesso, eh, non t’ubbriacare! Se t’ubbriachi.
Mi sedetti sul muricciolo, in attesa di colei. E rimasi quasi sorpreso, all’avvedermi ch’era una bella notte tiepida, con l’aria ferma, e una luna grande, appena velata da vapori di nebbia. Il mare, i giardini avevano un colore sorridente, come in primavera, e non s’udiva né un movimento, né una voce. Forse, io m’aspettavo che tutte le presenze del creato dovessero agitarsi commosse intorno a come la corte intorno a una regina! ma, invece, l’agonia di una donna nella sua stanzetta è una cosa tanto povera, che non può ombrare il grande universo.
15 - Intanto lei pure tra tanta gente (Voce: Giorgio Russomanno)
Intanto lei, pure fra tanta gente, non si dimenticava mai di me. Talora, in mezzo ai discorsi di quelle donne, senza badare a loro si volgeva soltanto a me, che stavo muto da una parte, e mi diceva, in una specie di timida confidenza: — Eh, Artù?... — Forse, intendeva chiedermi perdono per gli spaventi che m’aveva procurato la notte avanti! non mi diceva altro che questo: — Eh, Artù?... — La sua voce, pure adesso ch’essa era madre di una creatura, aveva serbato il noto sapore un po’ agrettino, quasi stonato, da ragazza che non ha ancora finito di crescere.
E all’udire quella solita vocina che diceva: "Artù", quando poche ore avanti l’avevo già creduta morta, io provavo una felicità così impetuosa, turbolenta, che mi facevo ancora più cupo in faccia. Era il mio carattere. Non mi sarebbe dispiaciuto di dirle almeno queste due parole: SONO FELICE!
Più volte, nella giornata, mi ripromettevo di presentarmi in camera e di dichiararle senz’altro: «Sono felice», sia pure in tono indifferente. Ma in conclusione, nemmeno una simile frase di due parole, non ebbi voglia di dirgliela.
Lo spettacolo di Nunz. viva, risanata e animata, che mi sorrideva fra i suoi riccioletti, a me solo, mi pareva d’un tratto un fasto miracoloso, come se l’isola si fosse popolata di dèi. E non sapendo come dare sfogo alla capricciosa allegria che m’invadeva il cuore, dopo un poco uscivo da quella camera troppo incantevole.
16 - Uscivo e mi pareva che tutti in terra (Voce: Giorgio Russomanno)
Uscivo, e mi pareva che tutti in terra non facessero che baciarsi: le barche, legate vicine lungo l’orlo della spiaggia, si baciavano! il movimento del mare era un bacio, che correva verso l’isola; le pecore brucando baciavano il terreno; l’aria in mezzo alle foglie e all’erba era un lamento di baci. Perfino le nubi, in cielo, si baciavano! Fra la gente, là per le strade, non c’era persona che non conoscesse questo sapore: le donnette, i pescatori, gli straccioni, i ragazzi.
Solo io non lo conoscevo; e mi venne una tale nostalgia di provarlo, che notte e giorno non pensavo quasi ad altro. Mi mettevo a baciare, per prova, magari la mia barca; o un’arancia che mangiavo, o il materasso su cui stavo disteso. Baciavo il tronco degli alberi, l’acqua che affiorava dal mare; baciavo i gatti che incontravo per la strada! E mi accorgevo di saper dare, senza che nessuno me lo avesse insegnato, baci dolcissimi, veramente belli. [...[
Mi dicevo: anch’io, un giorno o l’altro, bacerò̀ qualche persona umana. Ma chi sarà̀? quando? chi sceglierò̀, la prima volta? [...] Mi pareva che non si potesse mai conoscere la vera felicità dei baci, se erano mancati i primi, i più graziosi, celesti, della madre. E allora, per trovare un poco di consolazione e di riposo, mi fingevo nella mente la scena di una madre che baciava un figlio con affetto quasi divino. E quel figlio ero io. Ma la madre, pur senza che io lo volessi, non somigliava alla mia madre vera, la morta del ritratto: somigliava a N.
17 - Aveva una vesticciola rossa [Voce: Giorgio Russomanno]
Aveva una vesticciola rossa, e andava del tutto scalza, per l’abitudine presa nella mia assistenza in quei giorni. Sullo spiazzo, a quell’ora del mattino, si allungava ancora l’ombra del muro: solo l’ultima striscia, dove lei stava, era già raggiunta dal sole che saliva da dietro la casa; e le sue gambe nude, in quella luce rosa, avevano un colore ingenuo, che mi ispirava curiosamente a ridere. Fece qualche passo scrutando qua e là, con l’aria preoccupata d’una madre gatta, i ricci e le vesti mosse dal vento; poi di nuovo si dette a chiamarmi dall’alto della discesa. D’un tratto io presi una corsa e, sopravvenendola alle spalle, le dissi: «Sono qui». In un trasalimento di sorpresa, si volse contenta; e rimbrottò:
«Dove te ne stavi? già ti metti in giro!»
Quindi, forse confusa da un che di aggressivo nei miei modi, mormorò: «Artù, in questi pochi giorni ti sei fatto più alto…» […]
Questo mi parve il segno di una mia potestà anziana, fiera e gioiosa; e intanto ella si andava discostando impercettibilmente da me: ciò era come confessarmi che le batteva il cuore... All’improvviso la strinsi, baciandola in bocca.
Le sue labbra avevano un sapore freddo, marzolino; e la prima sensazione che ne ebbi non mi parve molto diversa da quella che si prova mordicchiando un’erba, o assaggiando dell’acqua di mare. Il mio pensiero in quel primo istante era: «Dunque, adesso, anch’io conosco i baci! Questo è il mio primo bacio!».
18 - Lungo tutta la via fino a casa (Voce: Giorgio Russomanno)
Lungo tutta la via, fino a casa, andavo ripetendo, fra di me, per non dimenticarla, la parola Parodia, del cui significato non ero ben certo. E, giunto a casa, andai a cercarla in un vecchissimo vocabolario scolastico, che stava da anni nella mia camera: forse già appartenuto alla nonna maestrina, o forse allo studente di Romeo l’Amalfitano. Alla parola Parodia lessi: IMITAZIONE DEL VERSO ALTRUI, NELLA QUALE CIÒ CHE IN ALTRI È SERIO SI FA RIDICOLO, O COMICO, O GROTTESCO.
Così, Wilhelm Gerace mi aveva giocato l’ultima insidia. Veramente, se con piena consapevolezza e intenzione, egli avesse studiato il modo più malizioso di riprendermi sotto la sua malìa, non avrebbe potuto inventare un gioco perfido al pari di questo, nel quale mi aveva attratto a sua insaputa! Adesso, cioè, mi appariva chiaro che nei suoi pellegrinaggi alla Terra Murata non lo aspettava se non una solitudine vergognosa; che lassù, egli veniva mortificato e ripudiato come l’ultimo servo. E a simile scoperta, non so perché, il mio affetto per lui, che credevo soffocato e quasi spento, si riaccese in me più amaro, struggente, quasi terribile!
19 - Là dentro le rocce dello sfondo (Voce: Giorgio Russomanno)
Là, dentro le rocce dello sfondo, sono scavate diverse grotte naturali. Due o tre di queste — dall’ingresso non più largo della misura d’un uscio, ma dall’interno, invece, abbastanza ampio e comodo — sono state adibite a depositi di attrezzi, remi, ecc., da alcuni proprietari di barche. Costoro pagano, per esse, un affitto al Comune, e le hanno provviste, all’ingresso, di robusti usci di tavole, tenuti, per solito, ben chiusi a chiave; ma, andando lungo la riviera, io m’avvidi che uno di questi usci era aperto. Forse il locatario della grotta aveva lasciato l’isola, o quel vano era in disuso. Nell’interno, infatti, non c’era altro che un ammasso di vecchi cordami quasi marciti, e qualche barattolo di colla coperto di muffa. […]
Il vento aveva voltato allo scirocco e faceva un tempo tiepido, burrascoso e scuro. Le sconnessure dell’uscio di tavole lasciavano entrare nella grotta un barlume di luce torbida; mescolato all’odore salmastro e pesante dell’aria. La piccola riviera, in quella stagione, era deserta come l’ultimo confine del mondo, e per qualche minuto non mi giunse nessun altro rumore se non il fracasso del mare agitato dal vento africano. Ma di lì a poco, fra questo fracasso udii avvicinarsi nel vento la medesima voce che al momento della mia fuga m’aveva inseguito fin nell’androne; e che seguitava a gridare, rotta dalla corsa e dall’affanno: — Ar-tuuuro! Ar-tuuù!
20 - Il piroscafo era già là in attesa [Voce: Giorgio Russomanno]
Il piroscafo era già là, in attesa. E al guardarlo, io sentii tutta la stranezza della mia tramontata infanzia. Aver veduto tante volte quel battello attraccare e salpare, e mai essermi imbarcato per il viaggio! Come se quella, per me, non fosse stata una povera navicella di linea, una specie di tranvai; ma una larva scostante e inaccessibile, destinata a chi sa quali ghiacciai deserti! [...]
Provai la tentazione furiosa di tornare indietro, correndo, fino alla Casa dei guaglioni. E di coricarmi accanto a lei: di dirle: «Fammi dormire un poco assieme a te. Partirò domani. Non dico che dobbiamo fare l’amore, se tu non vuoi. Ma almeno lascia ch’io ti baci qua all’orecchio, dove ti ho ferito».
Già, però, il marinaio, ai piedi della scaletta, stracciava i nostri biglietti per il controllo; già Silvestro saliva, assieme a me, la scaletta. La sirena dava il fischio della partenza.
Come fui sul sedile accanto a Silvestro, nascosi il volto sul braccio, contro lo schienale. E dissi a Silvestro: — Senti. Non mi va di vedere Procida mentre s’allontana, e si confonde, diventa come una cosa grigia... Preferisco fingere che non sia esistita. Perciò, fino al momento che non se ne vede più niente, sarà meglio ch’io non guardi là. Tu avvisami, a quel momento.
E rimasi col viso sul braccio, quasi in un malore senza nessun pensiero, finché Silvestro mi scosse con delicatezza, e mi disse:
— Arturo, su, puoi svegliarti.
Intorno alla nostra nave, la marina era tutta uniforme, sconfinata come un oceano. L’isola non si vedeva più.